Nella stimolante esplosione di riflessioni e ricerche orientate a ricomporre i rapporti tra civiltà e culture in una prospettiva “globale” – capace di svincolarsi dalle maglie di approcci storiografici spesso viziati da presunzioni e stereotipi ormai superati - un posto d’onore spetta alla storia della scienza e della filosofia naturale, un terreno di studi che reca con sé una irrinunciabile vocazione interdisciplinare, al punto da costituire una sorta di crocevia tra interessi storico-culturali, storico-artistici e antropologici. Contesto privilegiato di tale intreccio è quello della illustrazione scientifica, ambito di sperimentazione di disegnatori, artisti, tecnici della raffigurazione, che sin dagli albori della trattatistica di tema naturalistico hanno accompagnato l’impegno di medici, botanici, apotecari e studiosi dei fenomeni dell’Universo.
La mostra Rara Herbaria. Libri e Natura dal XV al XVII secolo, ospitata a Roma fino al 3 luglio presso la Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana (via della Lungara 10, ingresso gratuito), è una preziosa occasione per entrare in contatto con il mondo affascinante del libro illustrato di materia scientifica. L’esposizione, curata dall’accademica lincea, storica dell’arte ed esperta di illustrazione scientifica Lucia Tongiorgi Tomasi e da Michael Jakob, storico della cultura e del paesaggio, ospita parte dell’inestimabile collezione di Peter Goop (Vaduz, Liechtenstein), offrendo ai visitatori l’opportunità di ammirare – con assoluta coerenza comparativa – alcuni esemplari provenienti dalla biblioteca di Federico Cesi, fondatore dell’Accademia lincea (1603) e instancabile studioso di botanica e scienze naturali. Tra i volumi esposti, spiccano rari esemplari dei più celebri erbari di epoca rinascimentale: incunaboli illustrati che documentano l’evoluzione dell’iconografia scientifica e del suo rapporto con il testo scritto, evidenziando il difficile percorso di affinamento delle tecniche di riproduzione dei fenomeni naturali. Tra gli altri, spiccano i cosiddetti Kräuterbücher, testi in gran parte anonimi che di fatto aprirono la strada al genere dell’erbario stampato, la prima edizione illustrata della Naturalis historia di Plinio, pubblicata a Venezia nel 1513, e il prezioso De arte distillandi, in un esemplare di provenienza Cesi-Albani che – in apertura di mostra – Goop ha annunciato di voler donare alla Biblioteca Corsiniana.
Meno evidente è che dietro la produzione iconografica destinata a documentare la correttezza di osservazioni e scoperte rivolte al vero “teatro della natura” si nascondono un bisogno di attendibilità e la rivendicazione di una nuova autorevolezza, quella della diretta indagine della vita di piante e animali, di fenomeni terrestri e celesti, di spazi geografici finalmente raggiunti grazie alle imprese dei grandi esploratori. È a questo punto di svolta che la questione della veridicità della rappresentazione assume un ruolo determinante, in una tensione che rende la qualità dell’immagine (intesa come raffinatezza esecutiva e capacità persuasiva) quanto mai complessa: non basta che essa sia ben disegnata, colorita e composta (l’essere plausibile ne rafforza, paradossalmente, il potenziale illusorio) ma necessita di una sua attestazione di fedeltà al dato reale, che per lo più si sostanzia nella precisione dell’osservazione che l’ha ispirata e nel prestigio di chi ne ha sostenuto l’attendibilità. Non stupisce che, al di là delle ristrettezze economiche che spesso frenavano le ambizioni dei naturalisti, prevalesse un certo scetticismo nel reclutare illustratori poco propensi a limitare il proprio intervento ad una pedissequa riproduzione del vero. Di un suo disegnatore di fiducia, Giovanni Neri, Ulisse Aldrovandi riconosceva lo scarso talento artistico («in far altre cose non vale nulla»), ma ammirava la capacità di realizzare «figure che paiono il simolachro istesso di natura».
Già in epoca rinascimentale la conquista di approcci esecutivi sempre più raffinati riflette in modo speculare il conseguimento di metodi di osservazione oggettivi, non più esclusivamente incentrati sull’autorevolezza delle fonti antiche ma rivolti alla registrazione e alla verifica dei fenomeni stessi. Ne è chiara testimonianza l’Herbarum vivae eicones del medico Otto Brunfels, risalente al 1530, in cui si descrivono piante ignote alla trattatistica antica ma di provata efficacia farmacologica; nel volume della Collezione Goop, le precise xilografie dell’incisore Hans Weiditz il Giovane presentano una preziosa coloritura e mostrano dettagli minutissimi degli esemplari botanici, al punto che si ha l’impressione di coglierne la freschezza. Nonostante queste prime esperienze, il raggiungimento di una piena autonomia degli studi scientifici sarebbe stato lungo e accidentato, non solo per le controversie che le varie scoperte avrebbero sollevato, ma per la persistenza di convinzioni e pratiche secolari – avviluppate nella cultura magica e astrologica – difficili da sradicare senza ammettere la fragilità di un ordine che si era faticosamente composto per far fronte alla paura dell’ignoto.
Meno evidente è che dietro la produzione iconografica destinata a documentare la correttezza di osservazioni e scoperte rivolte al vero “teatro della natura” si nascondono un bisogno di attendibilità e la rivendicazione di una nuova autorevolezza, quella della diretta indagine della vita di piante e animali, di fenomeni terrestri e celesti, di spazi geografici finalmente raggiunti grazie alle imprese dei grandi esploratori. È a questo punto di svolta che la questione della veridicità della rappresentazione assume un ruolo determinante, in una tensione che rende la qualità dell’immagine (intesa come raffinatezza esecutiva e capacità persuasiva) quanto mai complessa: non basta che essa sia ben disegnata, colorita e composta (l’essere plausibile ne rafforza, paradossalmente, il potenziale illusorio) ma necessita di una sua attestazione di fedeltà al dato reale, che per lo più si sostanzia nella precisione dell’osservazione che l’ha ispirata e nel prestigio di chi ne ha sostenuto l’attendibilità. Non stupisce che, al di là delle ristrettezze economiche che spesso frenavano le ambizioni dei naturalisti, prevalesse un certo scetticismo nel reclutare illustratori poco propensi a limitare il proprio intervento ad una pedissequa riproduzione del vero. Di un suo disegnatore di fiducia, Giovanni Neri, Ulisse Aldrovandi riconosceva lo scarso talento artistico («in far altre cose non vale nulla»), ma ammirava la capacità di realizzare «figure che paiono il simolachro istesso di natura».
avvenire.it
(Segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone e Albana Ruci)
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