Con "St. Francis of Assisi" la National Gallery ripercorre i molti modi in cui il santo è stato percepito e rappresentato nei secoli. Una mostra non celebrativa ma dalla prospettiva politica e attuale
È difficile non ritrovarsi a pensare cosa sarebbe accaduto se una mostra come quella che la National Gallery di Londra dedica a san Francesco fosse stata allestita in Italia. Certamente celebrativa, forse persino trionfante, e quindi nostalgica. Molto probabilmente bulimica, come è accaduto altre volte. Niente di tutto questo nella capitale del Regno Unito. "St. Francis of Assisi" (fino al 30 luglio), curata dal direttore della National Gallery Gabriele Finaldi (britannico, a dispetto del nome) e da Joost Joustra (curatore associato in “Art and Religion” del museo: una figura simile in Italia non esiste) la mostra riunisce dipinti della collezione del museo londinese (Botticelli, Beato Angelico, Zurbarán) con prestiti internazionali come Caravaggio, Murillo e El Greco, oltre a opere contemporanee di Antony Gormley, Giuseppe Penone, Richard Long, Andrea Büttner. Il percorso è asciutto, senza retorica. Sì: francescano. Lo scopo è, scrive Finaldi, «esplorare come san Francesco è stato percepito e rappresentato nei secoli, e come in quanto figura storica è rimasto intensamente rilevante per il nostro tempo». La prospettiva su Francesco è rigorosamente filologica. È laica ma non laicizza Francesco né è tentata dal ridurlo a ecologista ante litteram. Si concentra sull’immagine – tra i santi, apostoli a parte, il poverello è probabilmente il più rappresentato nella storia dell’arte, soprattutto grazie a una ineguagliabile continuità temporale – ed è conscia dell’impossibilità di far coincidere figura storica e tradizione agiografica ma non si addentra in distinzioni, forse impraticabili per una mostra. Probabilmente perché il Francesco immaginato è stato più importante del Francesco reale: «La storia delle immagini di san Francesco – scrive Finaldi – è anche la storia di come Francesco è stato percepito nel tempo. Un’intera varietà di “Franceschi” è emersa attraverso i secoli mentre differenti aspetti della sua persona sono stati enfatizzati, adottati, promossi e inevitabilmente manipolati».
La prima sala riunisce in modo esemplare i tre principali vettori che hanno contraddistinto nel tempo la figura di Francesco. Il San Francesco in meditazione di Francisco de Zurbarán (1635-39) porta in primo piano l’elemento meditativo e il radicale pauperismo che è letteralmente habitus di una attitudine spirituale. Untitled (for Francis) di Antony Gormley (1985) – in cui la “cucitura” a vista delle lamiere in piombo richiama il patchwork dell’abito cappuccino del dipinto – toglie ogni connotato a Francesco lasciando solo l’apertura delle stimmate (in forma di occhi) e la forza del gesto ripreso dal San Francesco nel deserto di Giovanni Bellini. In A Walk for Saint Francis, commissionata ad hoc, Richard Long registra l’esperienza di una permanenza di otto giorni en plein air sul monte Subasio: canti di allodole, farfalle bianche, il sorgere della luna, notti stellate, guardare la rotazione della Terra... Un’immersione con uno sguardo contemporaneo nell’habitat dove è sbocciata e si è sviluppata la spiritualità francescana.
Il compito di riassumere la vita di san Francesco è affidato alle tavole superstiti del polittico di Sansepolcro del Sassetta, gioiello di narrazione tardogotica patinato da un linguaggio protorinascimentale. Sono disposte in una sala ottagonale che, come una sorta di crociera, distribuisce poi negli altri ambienti dedicati a focus tematici. Il primo è una sorta di scavo archeologico alle origini, tra rare tavole pregiottesche e facsimili di fonti francescane. Segue quindi una sala dedicata al san Francesco mistico, valorizzato dalla Chiesa post-tridentina. Attraverso un asse italo-iberico troviamo sottolineata la povertà di Francesco e soprattutto il dono delle stimmate, ossia la prova che certifica Francesco come Alter Christus. Troviamo qui tra gli altri dipinti San Francesco che abbraccia il Cristo crocifisso di Murillo, il San Francesco d’Assisi in estasi di un giovane Caravaggio (Hartford), un bellissimo San Francesco che riceve le stimmate del Greco, con le nubi che sembrano una grotta di cartapesta nella notte luminosa della Verna. Compare qui anche un soggetto iconografico in precedenza poco esplorato, l’episodio di Francesco rapito in estasi mentre ascolta un angelo suonare: un episodio che a fine Novecento avrà il suo apice, insieme alla predica agli uccelli, nel Saint François d’Assise di Olivier Messiaen, vera summa dell’intera storia religiosa, culturale ed estetica francescana.
Il tema iconografico di Francesco nella natura, almeno come lo intendiamo oggi, emerge più avanti nel tempo, quando tra Ottocento e primo Novecento Francesco gode di un forte ritorno di interesse, anche in seguito all’esperienza romantica, e acquista la dimensione di “santo universale”. E non è un caso che nella sala dedicata alla natura l’asse culturale si sposti a nord, incardinandosi tra Inghilterra e area tedesca. La curatela evita una visione panteista della natura in Francesco, che non ha nulla di pagano (come sostiene invece Giuseppe Penone, qui presente con Albero Porta – Cedro): la natura conserva la sua impronta creaturale (è sorella prima che madre), non è divina in sé. La scoperta della sfera naturale appare invece come una conseguenza della scelta rivoluzionaria di Francesco di uscire dai claustra monastici e abitare il mondo con sguardo biblico e cristiano.
La sala successiva, dedicata al “santo radicale”, è il cuore del percorso. Tutto ruota attorno al saio, che in un certo senso appare essere il primo soggetto di molti quadri. Il sacco rappezzato di Francesco è la armatura del soldato che ha rinunciato a tutto. Troviamo qui raccolti in un solo colpo d’occhio un secondo Zurbarán, un Sacco di Burri del 1953 (un accostamento che traduce istintivamente in stigmata il rosso che pulsa nella lacerazione) e il saio di Francesco dalla basilica di Santa Croce, a Firenze. È importante osservare che la mostra adotta le fonti e gli oggetti (il saio, il corno, i fogli da lui vergati con preghiere e disegni...) sia come documento sia con lo status di reliquia: ossia un dispositivo empatico che fa sentire Francesco prossimo, presente. Ed è giusto che sia così per il santo che, meditando il mistero dell’incarnazione, ha percorso la possibilità di “incorporare” (e bisogna ricordare che embodiment è una delle parole chiave dell’estetica e della filosofia contemporanee) l’esperienza di Gesù Cristo, passando dalla presenza “logica” dell’icona a quella “sensibile” dell’esperienza. Un’altra delle rivoluzioni francescane alla base della moderna cultura occidentale.
È vero che, come scrive Finaldi, «c’è un Francesco per ogni periodo storico e tendenza, per teologie differenti e politiche diverse» – e il capitolo finale con Francesco al cinema, tra Pasolini, Cavani, Rossellini e Zeffirelli, lo chiarisce perfettamente. Ma è altrettanto vero che Francesco resta così forte da sopportare ogni tentativo di riduzionismo, domesticazione e persino popolarizzazione devota (che raggiunge picchi ineguagliabili nell’albo a fumetti “Francis, Brother of the Universe”, versione supereroe sfornata nel 1980 dalla Marvel su invito dei francescani). Una resistenza e una irriducibilità che è, come conferma Finaldi, «una testimonianza del fascino perdurante dell’uomo che abbraccia la povertà per un ideale più alto e che insegna che l’umanità intera e il creato sono uniti in una fratellanza comune sotto un Dio amorevole». Anche per questo, in ultima istanza, quella della National Gallery non è una mostra celebrativa bensì politica: rileggere Francesco nel presente (anche attraverso l’enciclica Laudato Si’, citata espressamente dai curatori), in una società multipla, dispersa e non di rado disperata, nella quale il santo di Assisi è allo stesso tempo fattore aggregante e pietra di inciampo.
avvenire.it
(Segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone e Albana Ruci)
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