Blog Expo: Reportage. Il palazzo dei cecchini di Mostar è diventato il regno della street art

Reportage. Il palazzo dei cecchini di Mostar è diventato il regno della street art

Viaggio nella città bosniaca a trent'anni dalla distruzione del ponte-simbolo, ora ricostruito
Uno dei murales che lo decorano l'ex “Palazzo dei cecchini” di Mostar

Uno dei murales che lo decorano l'ex “Palazzo dei cecchini” di Mostar - WikiCommons

Da quassù, il Ponte vecchio abbattuto trent’anni fa e poi ricostruito non si vede. Lo Stari Most rimane nascosto in mezzo a un groviglio di antiche case ottomane del centro. All’ultimo piano dell’edificio abbandonato della Staklena banka c’è però la miglior visuale dall’alto su Mostar. Da qui si può esplorare attentamente quella parte del centro cittadino che non è stata ancora ricostruita. Osservare le ferite e le contraddizioni di un contesto urbano che è metafora delle persistenti divisioni sociali. I mostarini lo chiamano ancora “il palazzo di vetro”, anche se non c’è più alcuna traccia delle sue gigantesche vetrate blu. Sono saltate in aria tutte durante la guerra. Una decina di piani, circa trenta metri d’altezza, un profilo appuntito audace e avveniristico. Venne costruito per ospitare un istituto bancario poco prima che scoppiasse il conflitto, nel 1992. Fecero in tempo a mettere in funzione soltanto i primi due piani di quello che era all’epoca l’edificio più alto di Mostar. Durante la guerra poi i cecchini croati l’avrebbero utilizzato a lungo per seminare terrore e morte sui civili.

L’edificio, ancora crivellato da fori di proiettile e colpi di mortaio, è un macabro ricordo di quegli anni ormai lontani. Il suo imponente guscio di cemento a pianta triangolare si affaccia minaccioso sul Bulevar, lo stradone che negli anni ‘90 segnava la linea del fronte e per molti abitanti della città rappresenta tuttora un confine interno che separa lo spazio vitale della comunità croata a ovest e di quella bosniaco-musulmana a est. L’accesso al palazzo è stato inibito per motivi di sicurezza da barriere in cemento e mattoni alte quattro metri. Ma gli abitanti conoscono il punto esatto dal quale è possibile entrare scavalcando un alto muro sul retro del pianterreno.

L’interno è stato trasformato da tempo in uno spazio artistico pubblico. I suoi muri anneriti sono stati decorati con le opere degli artisti di strada che si sono sbizzarriti con bombolette spray, aerografi, stencil e disegni a mano libera. Alcune sono colorate e ironiche, altre cupe e inquietanti. Seguono lo spirito di una città che da almeno una decina d’anni, grazie a un festival che ospita artisti provenienti da tutto il mondo, è diventata l’indiscussa capitale dei Balcani per la street art. Il Safmo (Street Arts Festival Mostar), nato nel 2011, ha riempito Mostar di murales e graffiti realizzati da artisti locali e internazionali. Il “palazzo di vetro” è quasi un biglietto da visita di questa nuova tendenza culturale. Ogni piano dell’edificio è accessibile attraverso una serie di scale esterne in cemento prive di ringhiera che si affacciano su enormi ambienti aperti, privi di porte e finestre, e mostrano i davanzali da dove i cecchini prendevano la mira.

Una scala metallica all’ultimo piano consente anche di salire sul tetto, spalancando una formidabile vista panoramica a volo d’uccello su tutta la città. In molti edifici sottostanti sono ancora ben visibili gli effetti del terribile urbicidio compiuto negli anni della guerra. «Questi palazzi distrutti sono il simbolo di una città che ancora fatica a ritrovare lo spirito multiculturale di un tempo e resta profondamente divisa – ci spiega Dario Terzic, scrittore e docente universitario di Mostar –. Direi la più divisa di tutta la Bosnia, con una maggioranza bosniaca sulla sponda orientale, una maggioranza croata su quella occidentale e pochi serbi sparsi in entrambe le aree». Comunità che avevano vissuto in pace per centinaia di anni ma poi hanno finito per scontrarsi nel tentativo di distruggersi a vicenda. Trent’anni non sono bastati per rimarginare le profonde cicatrici sociali e politiche lasciate dalla guerra perché qualcuno ha remato contro.

Sul davanzale più alto del “palazzo di vetro” c’è una scritta a caratteri cubitali, “Zavadi pa vladaj” (Divide et impera). Secondo Terzic è un chiaro riferimento alla politica locale che continua a fare tutto il possibile per soffiare sul fuoco delle divisioni: «I partiti nazionalisti si sono messi d’accordo per spartirsi il territorio. La mentalità della gente non è più quella di prima, perché la guerra ha segnato anche un cambiamento profondo nella composizione degli abitanti e ha fatto venir meno il vecchio spirito di Mostar». Nel 2020, dopo dodici anni di rinvii dovuti ai continui litigi tra i partiti, sono state finalmente organizzate le elezioni comunali ma Mostar è ancora una città spaccata in due, con i musulmani a est e i croati a ovest, dove le divisioni etniche servono ad alimentare il clientelismo politico. Per i suoi 110mila abitanti tutto è diviso: le reti telefoniche, i servizi postali, le compagnie di servizi pubblici. «Dopo la guerra la politica ha riscritto la storia favorendo un’artificiosa separazione linguistica. Non esiste più uno spazio comune per la lettura, lo scambio e il dialogo. La scuola, dalle elementari all’università, ha classi separate e programmi diversi per croati e musulmani», conclude amaramente Terzic.

Il palazzo dei cecchini si affaccia su Španski trg, la piazza di Spagna, dove spicca lo sfarzoso edificio in stile moresco dell’antica Stara gimnazija, “il vecchio liceo”, l’unica scuola cittadina che accogliendo studenti di ogni provenienza e gruppo etnico rappresenta l’unica eccezione in un universo cittadino fatto di barriere, divisioni, muri invisibili. Le acque color smeraldo della Neretva segnano ancora il confine tra le due zone della città. Lo Stari Most che le sovrasta con la sua meravigliosa arcata a schiena d’asino si trova a una decina di minuti a piedi da qua. I turisti affollano l’area intorno al Ponte vecchio, che è stata meticolosamente riportata al suo antico splendore nel 2004 e inserita nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco.

Ma altri simboli della città non hanno avuto la stessa fortuna. Il grande cimitero memoriale partigiano costruito negli anni ‘60 per commemorare i combattenti serbi, croati, musulmani ed ebrei caduti nella Seconda guerra mondiale, fu colpito dalle prime granate esplose nel 1992 e da allora è stato abbandonato, «perché è un simbolo di unità che contrasta apertamente con le divisioni odierne», spiega Edita Vucic, docente di beni culturali all’università di Mostar. Considerato uno dei più importanti monumenti antifascisti dei Balcani, venne progettato dal famoso architetto jugoslavo Bogdan Bogdanovic con l’intento di segnare un futuro condiviso per tutti i gruppi etnici che componevano il Paese ma nell’estate dell’anno scorso è stato gravemente vandalizzato. Quasi tutti i suoi seicento fiori di pietra con i nomi dei combattenti antifascisti sono stati spaccati a colpi di martello e piccone. All’ingresso sono state dipinte svastiche con la vernice spray. «È stato un chiaro sfregio alla memoria condivisa della città e dell’intera Bosnia», sostiene Vucic, che continua a portare i suoi studenti in visita al cimitero. «Molti di loro non l’avevano mai visto. Farli venire qui è molto importante perché senza memoria non c’è futuro».

avvenire.it

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