Difficile sbarazzarsi di un mito incardinato nell’episteme greco-europeo se non nella costituzione della nostra coscienza, a partire dall’associazione tra luce e conoscenza, tra l’illusione e le ombre che i prigionieri della caverna prendono per vere. È uno dei paradossi della grotta in quanto topos, che Platone immagina e che viene tramandato fino a noi ma da cui bisogna uscire il prima possibile, se non si vuole vivere nella schiavitù.
Eppure, come scrive il filosofo francese Cornelius Castoriadis in Les carrefours du labyrinthe (1978): «Pensare non significa uscire dalla caverna, né sostituire l’incertezza delle ombre coi contorni netti delle cose stesse, il bagliore tremolante di una fiamma con la luce del vero Sole. È entrare nel Labirinto, più precisamente far essere e apparire un Labirinto quando invece saremmo potuti restare “tra i fiori contro il cielo” (Rilke). È perdersi in gallerie che esistono solo perché le scaviamo instancabilmente, girare in tondo, in fondo a un vicolo cieco il cui accesso si è chiuso dietro di noi, finché questa rotazione non apre, inspiegabilmente, delle fessure praticabili nella parete». Vasto programma filosofico; come reagiscono le arti visive e, nello specifico, un artista come Yong Ping?
Capofila del movimento cinese d’avanguardia Xiamen Dada (1985-87) – la cui parola d’ordine era, alla Nam June Paik, «Lo zen è Dada, Dada è zen» – in Cina familiarizza con l’arte europea attraverso le riproduzioni di opere di Duchamp, Manzoni e Beuys. A Parigi nel 1989 per partecipare alla celebre mostra Magiciens de la Terre, in quei giorni scoppia la protesta – e la sanguinosa soppressione – di piazza Tienanmen. Decide così di restare in Francia, dove realizzerà un’opera multiforme tesa tra mondo europeo e mondo asiatico.
Non fa eccezione la sua caverna, un monolite impenetrabile, un blocco geologico, un meteorite caduto sul Louvre Lens, un inciampo nel percorso espositivo. Un buco sulla parete retrostante permette tuttavia di sbirciare l’interno della scultura: qui sono visibili Buddha e talebani che, seduti a terra, meditano sui pipistrelli, nient’altro che ombre cinesi proiettate sulle pareti rocciose da un cilindro luminoso.
Yong Ping presenta Buddha e talebani in quanto, alla lettera, trogloditi, abitanti ovvero uno spazio cavernicolo. La scelta non è peregrina, se pensiamo che nella Geografia di Strabone (I sec. d.C.) e in altre fonti antiche «troglodita» non indica solo uno stile di vita, legato soprattutto ad abitudini alimentari, ma è un etnonimo, identificato cioè con un popolo barbaro che vive tra Egitto ed Etiopia – e persino l’etimologia della parola «arabo» viene ricondotta a questo termine.
Nel catalogo di Mondes souterrains, La Caverne è presentata come un’immagine dei Buddha di Bamiyan distrutti nel 2001, di Ground Zero, delle prigioni di Abu Ghrabi e, per anticipazione, del Bataclan, di «Charlie Hedbo», ma anche come una condanna dei giochi video, del Dark Web e dei fatti alternativi. Più prudente l’artista, restio a limitare il suo lavoro alla trasmissione di un messaggio politico univoco.
Senza essere coinvolti nella scena e da una posizione privilegiata, osserviamo attraverso lo spioncino i prigionieri delle loro illusioni. Che qualcuno faccia lo stesso con noi, da uno spioncino invisibile alle nostre spalle?
Il Manifesto
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