
C’è una moda che si mostra.
E poi ce n’è una che scompare.
Elena Dawson non disegna per il palcoscenico.
Disegna per l’assenza.
Per quel vuoto che resta quando qualcuno se ne va,
o quando qualcosa in noi si è già staccato, eppure continua a camminarci accanto.
I suoi abiti non hanno fretta.
Non si aprono alla luce.
Stanno in penombra.
Come certe ferite che nessuno vede, ma che continuano a pulsare sotto la pelle.
Nel suo studio nel Sussex, in Inghilterra, non si sentono grida, né briefing, né click di reflex.
Solo aghi che forano il tempo.
Solo tessuti che sembrano appartenere a un’altra epoca.
O a nessuna.
Quando vedi un suo cappotto, non lo guardi: lo ascolti.
È stropicciato, sfilacciato, vivo.
Come un ricordo.
Come un lutto.
Elena non crea per piacere.
Crea per portare addosso l’invisibile.
L’assenza.
Il dubbio.
La tenerezza che si nasconde dietro una cucitura storta, mai corretta.
Il suo passato con Paul Harnden, l’inizio, la separazione. Tutto resta taciuto.
Nessuna intervista, nessuna strategia.
Lei cuce come se non volesse che nessuno la trovi.
Come se la moda fosse un linguaggio troppo rumoroso per raccontare davvero ciò che sente.
E allora, nei suoi abiti, la voce si abbassa.
Si fa sussurro.
Si fa gesto interrotto.
Ogni camicia porta un tremore.
Ogni giacca è una memoria che non si lascia domare.
Guardare le sue creazioni è come guardare una stanza abbandonata,
dove però c’è ancora il profumo di chi l’ha abitata.
Non c’è nostalgia.
C’è presenza del passato.
C’è quella strana forma di bellezza che non si compra: la fedeltà a ciò che si è perso.
Elena non fa collezioni.
Fa apparizioni.
Ogni capo potrebbe essere l’ultimo.
Ogni cucitura è fatta come se fosse l’unica necessaria.
Non c’è business plan.
Non ci sono capsule.
Non c’è la logica del sistema.
C’è solo una donna che ha deciso di dare forma al vuoto.
Di trasformare il dolore in tessuto, e il tessuto in identità che resiste.
Ci sono abiti che indossi per essere visto.
Quelli di Elena li indossi per restare nascosto, ma vero.
Non gridano.
Non si impongono.
Si infilano come una seconda pelle dell’anima.
Una pelle che sa cosa vuol dire tremare.
E chi li sceglie, non sta cercando un look.
Sta cercando una risonanza interiore.
Sta cercando una cura senza parole.
Elena non ha bisogno di sfilare.
Le sue creazioni esistono al margine.
Come certi ricordi che non puoi raccontare, ma nemmeno dimenticare.
Ci sono fili che non uniscono, ma trattengono.
Che non costruiscono, ma accompagnano.
Elena cuce con quelli.
Non per legare, ma per ricordare.
Indossare una sua giacca è un atto di fiducia.
È dire: “sì, anche io porto qualcosa che non si vede, ma c’è.”
È scegliere di camminare con addosso la propria assenza,
non per nasconderla, ma per riconoscerla.
Perché in un tempo che ci vuole scintillanti, in posa, eternamente “ok”,
lei ci restituisce il diritto alla fragilità.
Alla malinconia.
Alla verità che non ha bisogno di essere urlata.
Elena Dawson non disegna mode.
Dà forma ai fantasmi.
E ci insegna che anche ciò che non c’è più può avere un corpo.
E tu, che leggi, lo sai:
ci sono giorni in cui un abito è tutto ciò che ci resta per non svanire.
Articolo di: Gabriele Vinciguerra
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